Educare alla nonviolenza

La ‘nonviolenza’ è definita sul vocabolario come “metodo di lotta politica consistente nel rifiuto di ogni atto che porti a ledere fisicamente i rappresentanti e i sostenitori del potere cui ci si oppone, limitando l’azione a forme di non collaborazione, di boicottaggio e simili”. Tuttavia, il significato è ben più complesso, la nonviolenza è uno stile di vita, è una fede, è una filosofia.

Sviluppata da Gandhi nel corso di molti anni, il suo senso è complesso e profondo, e per questo non è facile né comprenderla né spiegarla. Ci è però riuscito Eknath Easwaran, grande interprete dei testi religiosi indiani e, tra le altre cose, professore di letteratura inglese presso l’Università di Nagpur: nel suo libro Gandhi, come un uomo cambiò se stesso per trasformare il mondo le vicende della vita dell’uomo indiano si intrecciano con l’elaborazione della sua filosofia, strumento fondamentale non soltanto in ambito politico, ma anche in tutti gli altri aspetti della sua vita.

Come spiega Easwaran, Gandhi imparò il metodo della nonviolenza da Kasturbai, sua moglie. Per sua stessa ammissione, all’inizio del loro matrimonio, Gandhi si considerava il suo padrone più che suo marito, ma la determinazione di Kasturbai a non cedere e, nello stesso tempo, la sua disponibilità alla sofferenza, lo convinsero a cambiare atteggiamento.

Successivamente la teoria della nonviolenza si concretizzò nel satyagraha, cioè la sua tecnica di risoluzione dei conflitti dove tradizionalmente un contrasto si risolve quando uno degli antagonisti, facendo o non facendo uso della violenza, prevale sull’altro. Il satyagraha invece risolve la fonte dell’inimicizia, coinvolgendo nel processo di risoluzione entrambi gli antagonisti, cercando di trasformarli affinché insieme possano raggiungere l’armonia. Come Gandhi stesso ha detto, il satyagraha “è radicato nell’amore”.

Alla fine del libro l’intervento del filosofo Aldo Capitini, chiamato da molti ‘il Gandhi italiano’, ci spiega che tra i tanti ruoli che Gandhi ha ricoperto non manca quello di educatore, inteso non solo come insegnante delle discipline di base, ma anche come maestro dell’anima. L’istruzione tradizionale si basava sul metodo delle tre R: reading (leggere), writing (scrivere) e reckoning (far di conto). Lui ne creò uno nuovo, quello delle tre H: hand (mano), heart (cuore) e head (testa). Gandhi ribaltò l’ordine di apprendimento, il bambino non deve imparare delle nozioni e applicarle alla vita, al contrario deve studiare la realtà e trarne delle conoscenze.

Attraverso il lavoro manuale si sviluppa la spiritualità e si apprende… ad esempio, secondo Gandhi lo studente impara le lettere tramite l’osservazione e bisogna insegnarli a scriverle soltanto quando è capace di disegnare gli altri oggetti: “egli scriverà allora con una mano che avrà appreso a tracciare belle forme”. Questo principio non vale solo per l’apprendimento, ma anche per la formazione della persona. Questo compito spetta prima di tutto alla famiglia, ma, essendo la scuola il luogo principale di socializzazione per i bambini, può giocare anch’essa un ruolo fondamentale.

Piccoli e grandi hanno bisogno di scoprire come approcciarsi al prossimo con rispetto e amore e, contemporaneamente, come rimanere sempre se stessi; devono imparare che anche nei conflitti si può continuare a voler bene, sia a se stessi sia agli altri; in poche parole devono essere educati alla nonviolenza. Nelle nostre scuole, giustamente, si insegna l’inclusione, per non discriminare chi è diverso; si insegna che bisogna rispettare chi ha un’altra fede, una differente estrazione sociale o un altro colore della pelle; si insegna a non picchiare le donne, ma, come prevede il satyagraha, non è sufficiente eliminare la violenza o qualsiasi altro sintomo dell’inimicizia, bisogna eliminare l’antagonismo stesso partendo dalla sua fonte.

Allora forse non ci si deve limitare ad insegnare cosa non si deve fare, ma bisogna educare a dei valori che eliminino ogni pensiero di violenza, quello per cui la vita è sacra ed ogni essere umano è espressione di questa sacralità; che anche quando si litiga si continua a far parte dello stesso gruppo, quello dell’umanità. Che l’arma più potente che l’uomo possiede è l’amore. Sul giornale con cui diffondeva le sue idee Gandhi scrisse: “Il bambino dovrebbe imparare, come parte fondamentale della sua educazione, che nella lotta per la vita può facilmente sconfiggere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità e la violenza con l’autosacrificio”. Ai più piccoli si possono offrire delle letture che diano l’esempio, mentre ai più grandi si possono proporre dei dibattiti in classe, tramite cui imparare a rapportarsi con chi la pensa diversamente.

La nonviolenza insegna che i cambiamenti del mondo partono dai singoli, che il modo in cui si affronta una difficoltà determina il proprio futuro. Gandhi credeva fermamente nel fatto che, se non si considera un nemico come tale, se si reagisce in modo pacifico, se si è disposti a soffrire per difendere i propri valori, l’antagonista può cambiare e ci si può ritrovare tutti dalla stessa parte. Insegna un comportamento attivo ma allo stesso tempo non violento. Se i bambini imparano ad amare se stessi e a riconoscere nell’umanità la loro prima casa, diverranno degli adulti che sanno vedere nel prossimo un alleato e non un antagonista. La società allora non sarà formata da tante monadi che si scontrano l’una con l’altra, ma da una rete di persone che collaborano per la reciproca felicità. D’altronde, Gandhi disse che “se vogliamo raggiungere la vera pace in questo modo, e se vogliamo portare avanti una vera guerra contro la guerra, dovremo iniziare con i bambini”. La violenza esiste ancora, forse è perché abbiamo sempre insegnato la pace nel modo sbagliato. Ma esiste sempre la possibilità di un cambiamento.

 



A cura di Valentina Colombo, Studentessa Universitaria e Coordinatrice Provinciale Como UCDL.

In Redazione Nadia Copetti, autrice.

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